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In questo scritto del 1930 Arendt e Anders rilevano una tensione teorica irrisolta nelle elegie rilkiane. Da una parte l'esistenza è ritenuta autentica solo se non è legata a un destino personale, se si dipana libera nel puro corso del presente priva di ogni coscienza dei propri limiti, come avviene nell'animale, nel bambino, nel morente, nell'amante e nell'eroe. D'altra parte il destino è condizione per essere poeta perché per "dire" le cose - e così salvarle dal nulla - occorre porsi di fronte a esse. Trasformando il percepibile in impercepibile nello spazio interiore dell'anima, la parola poetica dona alle cose un senso, per quanto fragile. In questa tensione si svolge drammaticamente la vicenda dell'umano.